TOP OF THE LAKE [SubITA]
Titolo originale: Top of the Lake
Nazionalità: Australia, Nuova Zelanda, UK
Anno: 2013 – 2017
Genere: Commedia, Drammatico, Esoterico, Poliziesco, Psicologico, Serie TV
Stagioni: 2
Episodi: 13 [7 stagione 1] – [6 stagione 2]
Durata: 60 min. [episodio]
Ideatori: Jane Campion, Gerard Lee
Regia: Jane Campion, Garth Davis
Dopo il Sundance e la Berlinale, sarà Cannes la prossima vetrina per Top of the Lake
“We’re up in a place called Paradise, but is everything okay? Of course not.” Il posto chiamato Paradise è Laketop (Queenstown), in Nuova Zelanda. È qui che Jane Campion ha ambientato e diretto Top of the Lake, miniserie in sette episodi trasmessa da Sundance Channel (ultimo episodio lunedì 15 aprile) e ora disponibile in streaming su Netflix. Il lago del titolo è Wakatipu, lo stesso che fa da sfondo ad alcune scene de Il Signore degli Anelli. Un posto di una bellezza così devastante non passa certo inosservato.
Ma a farci notare che, a dispetto del nome, non tutto sia paradisiaco è GJ, “guru anti-guru” interpretata magnificamente da Holly Hunter che, vent’anni dopo Lezioni di Piano, ritorna a fianco di Jane Campion. Magrissima, androgina, con i capelli lunghi argento e la fila al centro, dalla sua sedia irradia, senza troppo sforzo, chi le sta intorno. La regista confessa di aver omaggiato per il carattere la figura di U.G. Krishnamurti – “the most free person I’d ever met who didn’t want something from you” – e per il look forse se stessa. Dura ma rassicurante, GJ non crede nella meditazione, ma nell’immobilità. Lei si definisce uno zombie, mentre Sundance Channel ha 10 ragioni per cui considerarla “a badass“. Il suo potere spirituale è solo realismo, semplicemente dice la verità alle donne “in a lot of pain” che le chiedono aiuto.
Jane Campion descrive un ritratto femminile ipnotico, incastonato in una location ai limiti dell’incredibile. Qui, in container con vista lago, vivono le donne che seguono GJ, diversamente sofferenti – c’è chi ha perso il suo amico scimpanzé, chi non accetta che il marito le preferisca una ragazza “much younger”, ci sono ninfomani con disturbi alimentari- in una sorta di rehab dell’anima. Già questo basterebbe a rendere importante Top of the Lake, eppure non siamo ancora entrati nella trama, ma in una sorta di movimento musicale che si contrappone, con la calma del lago e il giallo del grano, alla detection del plot, che si snoda tra boschi umidi e redneck con tatuaggi maori.
La sceneggiatura, scritta da Jane Campion assieme a Gerard Lee – già coautore con la regista di Sweetie e del corto Passionless Moments – racconta di una sparizione, quella di Tui (la bellissima Jacqueline Joe), figlia dodicenne e incinta di un boss della droga, Matt Mitcham, interpretato da un outstanding Peter Mullan (da recuperare la sua interpretazione in Tyrannosaur di Paddy Considine), che passa dal puntare il fucile contro i figli a flagellarsi nudo davanti alla tomba della madre, perfetto nel suo ruolo violento e profondo.
Ma è Elizabeth Moss la protagonista della serie. Suo il ruolo di Robin Griffin, detective di passaggio a casa della madre malata che si trova a dover risolvere il caso della scomparsa di Tui, tra traumi del passato che riemergono e instabilità a galla nel presente. Le sue corse nella foschia ricordano quelle di Jodie Foster ne Il silenzio degli innocenti, così come il suo sguardo aperto sui fatti, la sua forza e vulnerabilità insieme, “beautiful but real”, le dice Jane Campion. Per il ruolo di Robin, la regista all’inizio aveva pensato ad Anna Paquin – già incontrata sul set di Lezioni di piano, dove, a soli dieci anni, interpretava il ruolo delle piccola Flora, premiato con l’Oscar – anche per le sue origini neozelandesi che avrebbero reso più credibile come autoctono il personaggio. Elizabeth Moss, infatti, per guadagnarsi un impeccabile accento Kiwi, ha dovuto studiare molto, dimenticando i grattacieli di Manhattan (e il set di Mad Men dove, da sei stagioni, interpreta il ruolo di Peggy Olson) per immergersi (letteralmente) nelle acque gelate del lago.
Ad aiutarla nelle indagini è Al Parker (David Wenham), il capo della stazione di polizia diQueenstown che, oltre a mediare i non sempre facili rapporti con la gente del posto, gestisce un locale che dà lavoro a ragazzi svantaggiati. A subire il fascino algido e reale di Robin è anche Johnno Mitcham (Thomas M. Wright), fratellastro di Tui, legato al passato traumatico della detective ed ex detenuto in un carcere thailandese. Campeggia nei boschi, corre scalzo ed è segnato dal senso di colpa.
Tutti in Top of the Lake hanno ombre nel proprio passato e nebbie nel proprio presente: si tratta di personaggi irrisolti, in bilico tra tensioni distruttive e tentativi di assoluzione. Non c’è differenza, come invece sostiene Mike Hale sulle pagine de The New York Times, tra “swinish men and damaged women”. Non c’è femminismo nella visione di Jane Campion, perché tutti, donne e uomini, falliscono. E non è un caso che proprio la protagonista femminile, Robin, colei che ha il compito di cercare la verità, arrivi a dire: “Fuck the truth”.
È la regista a spiegarlo:
I mean, something that the story allows us is to give a polarizing look at the way men and women [engage] in an extreme situation. I’m pretty interested in that. And the women’s camp where they’re broken down — they’ve no longer got any hope of fitting into the world, so they’re kind of outspoken. They’re broken and outspoken. They’ve fallen off the social edge of the world. Their story doesn’t have a part for them to play, which is the unfuckables. They kind of know it, and it’s sad, but it’s also liberating.
Il senso di liberazione a cui allude Jane Campion è quello che sprigiona la natura, madre ancestrale onnipresente nel racconto e nei rapporti antropologici. La stessa natura che accoglierà Tui nel suo ventre e ne nasconderà ogni traccia (stupendo l’attimo in cui la bambina, con il fucile teso, sibila come un gatto). Non a caso certe atmosfere, oltre alle cime montuose sullo sfondo della sigla, ricordano Twin Peaks, suggerendo una lettura ora morbosa, ora sovrannaturale della trama e ricordandoci la lezione lynchiana del “niente è come sembra”. L’unica cosa su cui non ci sono dubbi è che Top of the Lake sia bellissimo, da vedere immediatamente.
China Girl
Più che la seconda stagione di Top of the Lake, questo China Girl sembra il sequel, perché non ne è la continuazione perfetta ma una versione più radicale verso il genere, una con “more of the same”.
Se la prima era un giallo di grande atmosfera, molto decostruito nella sua struttura e talmente pieno di digressioni nella vita privata che si faceva fatica a rintracciare le coordinate base del thriller (ed era uno dei suoi pregi), questa seconda, sempre scritta da Jane Campion e Gerald Lee, comincia invece in maniera più canonica, con una scena di mistero, qualcuno che spinge una valigia giù da una scarpata. Questa valigia si deposita sul fondo del mare e, lo vediamo da alcuni capelli che escono, contiene una persona. Alla fine del primo episodio verrà ritrovata dalla polizia mettendo ufficialmente in moto l’indagine.
Si tratta della medesima dinamica aurea che regge anche il primo episodio di Twin Peaks (stagione 1) e che da lì è un classico: gettare le basi umane e personali nel corso della prima puntata e solo alla fine dare il calcio d’inizio all’intreccio.
Qui c’è anche un piccolo riassunto di “cosa è successo nel frattempo”, nel tempo cioè che ci separa dalla fine della prima stagione. Una faccenda che viene sbrigata in poco tempo e con una certa semplicità ad un tavolino di un bar tra la detective Robin Griffin, sempre interpretata da Elizabeth Moss, e il suo nuovo capo: “Quindi cosa hai fatto in questi anni?”. Proprio così, exposition pura.
Questo momento però introduce anche un altro elemento forte di differenza con la prima stagione. Mentre quella era una storia di solitudine, in cui la detective sembra agire quasi sempre da sola, o con aiutanti esterni, una specie di lupo solitario del sistema, qui è molto più inserita nella polizia, ci sono molte più scene con gli altri poliziotti. Subito la vediamo fare un training a degli agenti e ovviamente subito la vediamo discriminata per essere donna. Viene derisa perché deve insegnare a degli uomini a difendersi, viene sminuita quando parla di essere stata assalita sessualmente alla fine della scorsa stagione (sostengono che non fosse proprio sicuro che la volessero assalire). Sembra insomma Debra Morgan, la sorella di Dexter, una donna in un mondo di uomini che necessariamente ragiona, parla e si atteggia come loro, forzando la propria natura, eppure lo stesso non è trattata come loro.
Il nuovo contesto molto meno a cielo aperto (ma parliamo solo dei primi due episodi) e molto più d’ufficio introduce però la più piacevole delle variazioni: Gwendoline Christie. L’attrice che nel Trono di Spade interpreta Brienne di Tarth qua è una giovane agente con il mito di Robin. Lei, le sue azioni, la sua durezza, la capacità di risolvere il caso al centro della precedente stagione e come ha gestito quel complicato finale violento, la adora con un semplicismo da paesanotta. Ingenua e molto gentile (cosa non facile per una poliziotta), inesperta e naive, sembra una personalità dolcissima in quel corpo da gigantessa su cui la serie lavora benissimo. L’indizio più promettente di tutti, il personaggio che vorresti vedere coinvolto in ogni scena.
Non ci sono dubbi che nelle prime due ore sia lei il personaggio più bello e ogni volta che è in campo accadono cose divertenti, interessanti e anche visivamente impegnative. Solo l’averla accanto a Elizabeth Moss, la prima così grossa e la seconda così piccola, la prima gentile, la seconda dura è un contrasto che funziona immediatamente. Potrebbe essere la terza stagione mai fatta di True Detective
Perché Top of the Lake: China Girl funziona proprio come un poliziesco maschile, un buddy movie con una coppia che pare male assortita invece (sembra di capire) farà squadra contro tutti: il detective con la vita privata rovinata e i fantasmi interiori (un flashback di un mese prima dei primi momenti della puntata rivela com’è finita con Johnno) e la sua spalla ingenua con gli occhi pieni di speranza. Potrebbe essere la terza stagione mai fatta di True Detective. Solo che al posto del whisky c’è la maternità (come del resto anche nel precedente) c’era un feto nella ragazza morta nella valigia, ci sono diverse persone che aspettano un bambino e c’è la maternità nella testa di Robin.
Quello che non riconosciamo allora è l’atmosfera. Non ci sono dubbi che China Girl parta bene e imbastisca alla grande la nuova trama, in maniera appassionante e incalzante. Ci sono diversi personaggi secondari promettenti e tutto appare instradato sui binari migliori, ma quello che era il vero segreto della prima stagione, quel senso nebbioso di umido fastidio, quella specie di scomodità dello stare al mondo, voglia di abbandonare quei luoghi e sensazione che faccia tutto schifo non c’è. Anzi, con l’ingresso di una parte di trama sulla figlia di Robin (che lo stupro della prima stagione avesse dato origine ad una figlia già lo sapevamo), arrivano anche dei bei giorni di sole.
Messo quindi in secondo piano lo sfondo (anche se pare tautologico) emergono gli attori. Si è già detto di Gwendoline Christie e di come abbia ribaltato benissimo il proprio stereotipo fondato con Il Trono di Spade, senza ignorare il proprio fisico (per un’attrice simile è impossibile fare finta che non sia quello che è) e sfruttandolo in un’altra maniera, ma anche Nicole Kidman sembra in grandissima forma. Con una dentiera che un po’ le modifica il volto, qualche chilo di meno e i capelli grigi appare qui più adatta ad ogni scena ed ogni interazione di quanto non sia sembrata negli ultimi 5 anni di cinema.
Tuttavia quando, arrivati alla fine del secondo episodio, Robin incontra sua figlia in un bar Elizabeth Moss rimette la chiesa al centro del villaggio e regala un momento di grandissima vera recitazione, delicatissima. Sembra quasi cambiare il proprio corpo, diventare più piccola e fragile, offre una debolezza in modi che non crederemmo possibili per quel personaggio e invece rimangono coerenti. Questo è recitare bene in una serie, affrontare un personaggio con una coerenza pazzesca anche nelle variazioni.
La sola presenza nell’industria audiovisiva di quest’attrice fenomenale dimostra da sola l’assurdità del sistema in cui vivevamo solo qualche anno fa, quello che non avrebbe mai fatto lavorare con questa centralità un’attrice così “non bella”. Il solo pensiero di quello che ci saremmo persi è il gesto più forte di attivismo femminista di queste sole prime due puntate.
Recensione: cinemaerrante.com + badtv.it
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